Prima di tutto: diffidare di tutti gli articoli e libri che iniziano con “come fare questo e quello”. Non ho mai comprato un libro o letto un articolo intitolato “Come comunicare il vino”. L’ho imparato giorno per giorno.
Da ragazzo, aiutando mio papà a imbottigliare dalle damigiane in cantina e andando ogni estate nella cascina degli zii nelle Langhe, tra Mango e Santo Stefano Belbo, fra le vigne di Moscato. Le suggestioni pavesiane sembrava che le sentissi solo io, tutti erano troppo presi a lavorare a testa bassa per divagare con poesie e racconti. Gli unici racconti si facevano alla sera, seduti sul trave in fondo al cortile, su un dirupo che guardava la valle, le colline e vigneti giù giù fino a Coazzolo, Castagnole, Neive. Ci si trovava tutti noi della borgata, e io -‘l matòt ‘d Turin- ascoltavo rapito cose che erano lontanissime dalla mia vita cittadina quasi quanto le storie dei pirati di Mompracem.
Poi anche qui è cambiato il mondo. Sono cominciati a girare i soldi, e con i soldi l’invidia: “quello là si sta facendo la villa, quell’altro si è comprato la Mercedes, quell’altro ancora si rifà la cantina nuova” e il trave in fondo al cortile è rimasto vuoto.
Ma le Langhe non si perdono. Quello che respiri da bambino ti rimane per tutta la vita nell’anima.
A inizio anni ’90 mi arriva il lavoro più bello della mia vita: scrivere le guide letterarie delle Langhe sulle orme di Pavese e Fenoglio. Ogni weekend partivo in direzione Langhe con la mia Peugeot 304 cabriolet color oro metallizzato.
Le Langhe di quel tempo erano una terra di confine fra la miseria e la Malora di prima e il glamour di oggi, con le cantine progettate dagli archistar e le piole che si chiamano WineBar.
Giravo tutte le Langhe, andavo a visitare ogni località, ogni strada, ogni cascina citata nei romanzi e nei racconti di Pavese e Fenoglio. Ogni tanto mi fermavo a dormire dagli zii, e alla sera ero l’unico a sedermi sul trave e guardare la valle. In questi percorsi ho conosciuto maestri di scuola che raccoglievano storie locali come reliquie, vecchi partigiani che dopo cinquant’anni e passa ancora piangevano per i compagni morti, o forse per l’Italia che sognavano e che non avevano mai visto, produttori di vino o di nocciole che mi portavano a vedere quel pezzo di terra descritto da Pavese o da Fenoglio con l’orgoglio di un papà il giorno che si sposa il figlio o la figlia.
Poi il centrodestra vince le elezioni regionali, il committente delle guide letterarie cede il posto a un funzionario berlusconiano e il progetto finisce nel cestino (“Pavese e Fenoglio? Due comunisti!”). Mai pubblicato niente.
Mi consolo in due modi: prosaicamente, il mio lavoro fino a quel momento era stato comunque pagato; poeticamente, perché girare fra le colline di Langa con i libri di Pavese e Fenoglio, prendere appunti al tavolo di una piola, appoggiato al palo di un filare o seduto sugli scalini di un ciabot fra le vigne mi ha arricchito più di qualsiasi ulteriore bonifico.
Nel frattempo lavoravo come copywriter in agenzia: capitava di scrivere campagne per spumanti industriali (Gancia, Martini, Bosca, Maximilian I, Maschio) ma nessuno di quei lavori mi ispirava a far uscire quello che aveva assimilato la mia parte di anima langarola.
Chi mi ha insegnato la curiosità di vedere il vino dalla parte delle radici è stato lavorare per i Marchesi Antinori. Per loro ho scritto i libri sul Tignanello e sul Villa Antinori, e con loro ho imparato a guardare il passato attraverso il vetro di una bottiglia. Meglio ancora: a riconoscere l’importanza dei ciottoli di pietra alberese disposti uno ad uno sotto i filari per impedire la crescita di erbe infestanti evitando quindi gli erbicidi e per riflettere la luce e il calore del sole sul grappolo.
L’illuminazione mi colpisce sulla strada non per Damasco, ma per Milano. Sto andando da un cliente in una zona industriale in un paese del milanese, quei non-luoghi where the streets have no name, come cantavano gli U2 e dove neppure il navigatore si sente a suo agio. Tangenziali, svincoli, capannoni, vetricementi, blocco3palazzina7.
Questa desolazione mi fa dire “devo lavorare per clienti che facciano cose buone in posti belli, e che sia un piacere andarli a trovare”.
Così scrivo a Marchesi di Barolo una candidatura spontanea per dare una svolta alla loro comunicazione. Il concetto che racconto a Valentina e che la colpisce è semplice: “siete gli inventori del Barolo, ma non lo dite con convinzione. In queste cantine è stato creato il primo Barolo, una delle invenzioni più buone del mondo, raccontiamolo”.
Cerco di vincere quella piemontesissima ritrosia che ha “Esageroma Nen” come motto araldico. Un approccio simile l’avevo già usato per Caffarel, gli inventori del Gianduiotto, un’altra creazione straordinaria che, come il Barolo, rende il Piemonte degno di venerazione per tutte le persone al mondo dotate di papille gustative.
Sì, ma come si scrive il sito per Marchesi di Barolo? Bisogna sapere ogni cosa di una storia che risale a inizio ‘800. Così vado a Barolo, passo una giornata con la famiglia, ognuno mi racconta una parte della storia, delle sue sensazioni. La parte del leone la fa il dottor Ernesto, che ha il culto della storia e ha raccolto infinite testimonianze sul Barolo dei Marchesi.
Ci sediamo a un tavolo nel cortile, lui sfodera libri e libroni, lettere ingiallite dal tempo e io prendo appunti e sento quell’emozione che percepisci quando capisci di essere nel posto giusto, con le persone giuste, a fare la cosa giusta. L’emozione continua quando entriamo nelle cantine storiche della Marchesa, con le gigantesche botti di rovere di Slavonia in cui a inizio ‘800 si compì il miracolo della creazione del primo Barolo.
Sono momenti in cui mi rendo conto della mia fortuna, fare un lavoro che mi porta a scrivere i prodotti e le aziende che sono importanti per la mia vita. Fin da piccolo, quando scendevo in cantina a prendere i barattoli della giardiniera e delle pesche sciroppate che facevano d’estate nella casa di campagna, vedevo nello scaffale in alto le bottiglie di Barolo dei Marchesi di Barolo con le date significative: 1929, 1935, 1962, 1967, gli anni di nascita di mio papà, mia mamma, mio fratello e del sottoscritto
Ogni volta mio papà mi diceva “quelle bottiglie lassù non si devono toccare” e per me era un frutto proibito, un tesoro irraggiungibile. E a distanza di anni eccomi a scrivere la storia di questa azienda e di quel vino custodito nelle bottiglie più preziose della mia famiglia. Sono quelle situazioni in cui scrivi mettendoci non solo la competenza che bisogna mettere in ogni lavoro, ma mettendoci quel fattore che fa la differenza fra un lavoro ben fatto e uno fatto con il cuore. Il cuore, appunto.
Gli affetti e i sentimenti come doping per esaltare la qualità del lavoro?
Funziona davvero.
Un altro esempio.
Un giorno capito sul sito di Cavallotto, uno dei più bei nomi del Barolo e di Langa.
Quello che leggo mi intristisce. Chiamo subito il mio amico Alfio Cavallotto e gli dico: “mi piange il cuore vedere il tuo sito scritto così male. Te lo riscrivo io come si merita.” E così ho imparato l’importanza di raccontare ogni cru, ogni filare, a partire dalle radici e ancora più giù, il terreno Tortoriano, il Langhiano, le marne calcareo-argillose e le venature di sabbia. E ho capito che le cantine sono l’anello di congiunzione fra la terra in cui sono scavate e le persone che ci lavorano per far nascere il vino. E così ogni bicchiere prende tutto un altro sapore.